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Concorso Laghese di Narrativa e Poesia "Vite in Viaggio. Riflessioni, racconti, versi sul personale senso del viaggiare"
XXII Edizione

Ultimo aggiornamento: 26 Ottobre 2020
Clicca qui per il bando completo del concorso
Andamento del concorso:

Lunedì, 23/03/2020

A seguito dei Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri inerenti le misure da adottare per fronteggiare l’emergenza legata alla diffusione del COVID-19, l’Amministrazione Comunale di Lagosanto assieme alla Cooperativa Sociale “Le Pagine” di Ferrara che gestisce il Premio Laghese hanno deciso di rinviare al prossimo autunno la Cerimonia di Premiazione del Concorso in oggetto e di rimandare, quindi, ogni momento di condivisione, riflessione e valutazione delle opere partecipanti al termine dell’emergenza sanitaria attualmente in corso.

Sarà premura dell’organizzazione del Premio, inserire sul sito del Comune di Lagosanto e sulla presente piattaforma ogni informazione relativa all’andamento del concorso e alle date di selezione ultima dei vincitori e di premiazione.

Ringraziamo già da ora i numerosi partecipanti per aver aderito al Ns Bando di Concorso: che la scrittura vi accompagni anche in questo momento così difficile per tutti.

Risultati

Sezione narrativa

1. classificato: Costanzi Stefano, con “Reggio Emilia-Auschwitz. Una gita scolastica 22-27 febbraio 2010”.
2. classificato: Sala Ornella, con “In viaggio con me”.
3. classificato: Testana Carlo, con “Il nodo di un viaggio”.

Sezione poesia

1. classificato: Centomo Bruno, con “Gli appunti del viaggio”.
2. classificato: Baro Giorgio, con “Sguardi nomadi”.
3. classificato: Baldassarre Diego, con “Oscillazioni”.

Opere vincitrici

1° classificato narrativa Stefano Costanzi con “Reggio Emilia-Auschwitz. Una gira scolastica 22-27 febbraio 2010”

Quando si arriva alle barzellette significa che si è dato fondo a tutte le riserve di energia e si è sfiniti, dopo c’è solo il dolente Azzurro nella versione strascicata di Celentano. Ma manca poco, si è quasi a casa, e viviamo almeno un po’ in silenzio, del resto la coda del pullman non ha mai smesso di dormire alla meno peggio, qualcuno sonnecchia appoggiato alla spalla del compagno, qualcun
altro ha realizzato cuscini avvolgendo le giacche a vento e appoggiato alla cortina del finestrino stringe gli occhi in lineamenti supplementari.
Allora mi scopro a contemplare questo paesaggio famigliare dove pure un Autogrill fa casa. E penso che dopo l’anonimato dei paesaggi monotoni di mezz’Europa anche l’A22 è un luogo e così le immagini recenti premono sui miei lobi frontali e passano come in una vecchia serata di proiezione diapo. Cracovia, Auschwitz I, Kasimiersz, le baracche di Birkenau.
Fu gabriele a darli l’A4. Ci andiamo prof, dice sistemandosi lo zaino, ma senza traccia di domanda.
Viaggio della memoria-Auschwitz, Polonia 2010. E’ l’oggetto della circolare. Da tempo desideravo partecipare. Ecco, in quel giorno di ottobre è partita questa traversata. O forse anche prima. Non so.
Poi sono venute le trafile burocratiche che la scuola impone: le assemblee di classe, le ragioni degli alunni in disaccordo, le votazioni scrutinate alla lavagna, le autorizzazioni controfirmate dai genitori.
Il 22 febbraio alle 5.30 anche il ragazzo più vivace con movimenti lenti saluta i genitori e offre la valigia all’autista davanti alle pance dei pullman, occupo il seggiolino tra gli obbligati scranni dei prof, appena dietro all’autista. Per ultimo faccio l’appello e dico che si può partire.
La sera del 22 febbraio facciamo tappa a Brno, Cracovia è domani. Alle 19 saremo finalmente all’Hotel Copin invaso dagli otto pullman del viaggio della Memoria da Reggio Emilia. I ragazzi sono educati, prendono posto nelle camere senza fare troppo caos, protestano invece per le pietanze della cena e perché per quella sera non li lasciamo uscire. Domani, ragazzi, alzo le braccia quasi a pararli nella Hall. I reclami non durano e i tavolini del bar a lato della reception sono invitanti.
Cracovia è una città autentica. Le distorsioni di un certo turismo non sono ancora arrivate e le strade sbrecciate non possono fingere. Abbiamo la fortuna di avere belle giornate, le temperature siberiane previste non ci sono e a mezzogiorno si sta bene in giro. Al mattino la guida ci ha portato sui luoghi monumentali: la città vecchia e la collina di Wawel. Il pranzo è libero, poi la parte ebraica. Pochi minuti a piedi e oltre la via Jozefa Dietla, quasi una lingua sulla cartina, a sud c’è il vecchio distretto di Kazimierz, il quartiere ebraico. Lì l’atmosfera è modesta ma ariosa, i negozi hanno le campiture scolorite e i giovani sono in fila davanti ad un negozio di panini su Plac Wolnica. L’atmosfera è quella di un Marais dell’est, più dimesso e meno elegante: localini e donne con buste di plastica occhieggiano tra le quinte del municipio e la chiesa barocca di Corpus Cristi. Attraversiamo i vicoli dove Spielberg ha girato Schindler’s list e, superato il ponte sul fiume Vistola, siamo a Podgorze. E’ una zona ben definita e per questo divenne il ghetto nel 1941. Infine piazza della Concordia, oggi Piazza deli Eroi del Ghetto: “una anonima piazza disseminata di sedie. Sedie molto più grandi del solito, di metallo color verdastro e disposte in un preciso ordine. Ci ricordano una classe prima di una verifica.”
Queste parole con cui i ragazzi hanno descritta l’istallazione degli artisti Piotr Lewitski e Kazimiers Latak nell’articolo previsto per il diario di viaggio. La brava guida ci indica l’antistante farmacia di Tadeusz Pankiewicz, unico lavoratore non ebreo del quartiere, riconosciuto Giusto tra le nazioni per la sua totale dedizione; segna gli edifici ricostruiti e quelli originali. Ci dice di come, tra 13 e il 14 marzo 1943, durante lo sgombro del ghetto, per impedire fughe e nascondigli, furono gettate sulla piazza delle case una diga di masserizie, tavoli, credenze, ma soprattutto sedie, frantumate, tirate delle finestre, legni sbriciolati, staggi divelti, telai slogati ormai senza più paglia. Hanno imbrigliato il dolore muto con la costruzione di un’assenza. La serata scorre tranquilla, molti che il giorno prima protestavano sono stanchi e preferiscono ritirarsi nelle camere e anticipare i cerimoniali della nottata: noccioline, sigarette e chiacchiere in pigiama. Io solo accompagno un nugolo di tifosi in un pub a vedere l’Inter: E’ finita la partita, dai che andiamo, domani partiamo presto. Quanto dista, prof, Auschwitz da qui? domanda Matteo in T-Shirt, lui che ha sempre caldo. Sessanta chilometri circa. Ma è Oswiecim, Auschwitz è in tedesco.
Alle sette tutti tranne due sono puntuali per la ricca colazione dell’Hotel e pazienza per le infradito di gomma che appaiono sotto le tovaglie, I pullman possono così dragare la pianura europea in orario.
In genere sono gli aspetti più scontati e risaputi della vita che ti trovano sempre impreparato, anzi, addirittura proprio mentre li vivi ti accorgi di aver commesso lo stesso errore che ti saresti mai e poi mia sognato di fare.
Così capita che un giorno di febbraio arrivi ad Auschwitz, e lo fai per trovare delle risposte, per capire qualcosa di più, e però quando torni a casa stringi solo delle domande e allora non ti arrabbi neppure, perché ci sarebbe da tirare la testa la muro.
Mentre aspettiamo le guide all’ingresso di Auschwitz I penso che fare da cicerone in questo posto debba essere lancinante. Ma ancora mi sbaglio: le due signore sono solari e decise, e per tutto il cammino sapranno essere all’altezza del compito senza pietismo né il distacco dei mestieranti. Iniziamo da Birkenau, lo raggiungiamo a piedi scortati da un sole inaspettato. Seguendo le piste nere dei binari ci troviamo davanti all’unico edificio in muratura, pipistrello in mattoni stinti imprigionato da dorsi curvi in cemento sulle cui schiene, quasi placche osee, gli isolatori di ceramica annodano e tendono le fibre cornee del filo spinato, folli vertebre per gli alti voltaggi. Questa è la costolatura, il sistema scheletrico e nervoso del campo di distruzione, punteggiato da delle torrette in legno di quattro metri ai fianchi della bestia infernale.
Ci dividiamo in due gruppo di diverse classi. I ragazzi sono in silenzio come raramente capita. Qui poco è rimasto come era, il vagone sulla judenrampe è stato portato recentemente, le baracche residue, stalle provvisorie per cavalli, stanno cedendo anche loro. Scendiamo all’inferno con gli anfibi e i piumini griffati. La visita è senza retorica: esaminiamo le baracche, le latrine; mentre camminiamo il sole buono e l’erba tra la neve mi fanno pensare alla realtà, mi ricordano l’autenticità di questo momento; la normalità dei deportati che hanno calpestato queste zolle e che hanno visto la stessa luce che vedo io e che mi porta fuori dai film visti e dai libri letti e che mi fa sentire solamente la mia umanità dentro le mie scarpe, la stessa delle vittime, la medesima degli assassini.
Dopo il pranzo proseguiamo per Auschwitz I scambiandoci solo sguardi. La scritta Arbeit macht frei è stata riposta dopo un furto recente. I block sono in cemento e perciò l’inferno ha lasciato qui segni resistenti; ecco gli spazi del dolore cupo e muto: il muto nero d’esecuzione, il blocco della morte del sonderkommando, l’infermeria sala-di-tortura in cui la luce obliqua taglia lo spazio in due sezioni araldiche; i forni crematori della Topf a doppia muffola sotto una soffitto a volta, le stanzone più ampie fitte di ammassate scarpe e le valigie dei deportati, e infine le loro foto, lì, a interrogarci.
La strada si allunga per consentire di vedere almeno il sedime di Auschwitz III, la fabbrica di prodotti chimici, quella di Primo Levi, gigantesca la costeggiamo ignari. La corriera è costretta così ad attraversare la foce stretta dei centri storici dei paesini molecolari in cui la vita sembra ossificata, la luce ormai spenta del pomeriggio ce li mostra esangui, le poche figure umane sono ritratti neri di pittura vascolare.
“Non vi ho contati… ci siete tutti, sì?”
“Tranquillo prof, là non c’è rimasto nessuno.”
Tendo il collo oltre il sedile per guardare e medito che sono davvero stanchi, non hanno neppure le cuffiette dell’I-pod. In quel momento è come se fossi certo che il bus, quella scialuppa di salvataggio con quella piccola compagnia, avrebbe viaggiato per sempre.
“Prof…”
“Si?”
“Quando saremo a casa?”
“Non lo so Matteo, non lo so.”

2° classificata narrativa Ornella Sala con “In viaggio con me”

Il treno sta partendo. Il capostazione ha già fischiato e io ho preso posto accanto al finestrino: mi piace vedere la città che si allontana, i tetti e i capannoni industriali che scorrono in rapida successione davanti ai miei occhi e gli alberi che disegnano fugaci profili contro il cielo prima di perdersi all’improvviso nel buio di una galleria per ricomparire, sempre uguali e sempre diversi, nella luce del giorno.
Lo zaino è pieno, stipato fino all’inverosimile di tutto ciò di cui penso di avere bisogno, ma so già che qualcosa mi mancherà: il maglione abbastanza pesante per le sere più fredde, le scarpe comode per camminare su strade irte di sassi, il cappello con la tesa ampia per riparare il viso nelle giornate di sole cocente, avare anche solo un brandello di ombra in cui trovare un attimo di ristoro.
E’ sempre così, ma è giusto così.
Il viaggio non è un viaggio senza gli inevitabili imprevisti ed io voglio essere un viaggiatore, non un turista da itinerari organizzati, gli alberghi già prenotati, le visite già programmate, tutti in fila dietro al guida della comitiva con la bandierina colorata alta sul capo, che nessuno si smarrisca lungo la strada, la voce cantilenante che spiega, monocorde ed opaca, nemmeno il tempo per una domanda, per un sorso d’acqua e via… verso un altro monumento, un’altra chiesa, un’altra piazza.
Me lo ha insegnato mio padre, lettore accanito di romanzi di avventure, gli occhi sempre spalancati sul mondo, assetati e curiosi.
Non poteva mio padre permettersi viaggi reali che c’era sempre da spaccare il capello in quattro per un paio di scarpe in più, ma volare via con la mente non è mai costato niente.
Avevo pochi anni quando mi prendeva sulle ginocchia e mi portava ad esplorare le vie del mondo sulle pagine dell’atlante De Agostini e dove la sua mano si fermava là mi sembrava di essere per come raccontava e, sull’onda della sua voce, ero Robinson Crusoe nell’isola sperduta al largo del Venezuela, lo schiavo negro nelle piantagioni di caffè, il capitano Achab nella lotta senza quartiere contro la balena bianca, Livingstone alla ricerca delle sorgenti de Nilo ed Hemingway nei bar malfamati di Cuba.
A suo modo, dunque, mio padre un viaggiatore lo è stato davvero, protagonista di un universo narrativo pieno di fascino: una sorta di novello Salgari di cui si dice che abbia scritto di paesi favolosi senza essere mai uscito dai confini dell’Italia.
Conservo come bene prezioso quel suo vecchio atlante ormai ingiallito e non più attuale dove c’erano nazioni che adesso si sono smembrate e non esistono più come la Iugoslavia, l’URSS e la Cecoslovacchia, o come la Repubblica democratica del Congo che allora si chiamava Zaire e dove Rangoon era ancora la capitale della Birmania.
Io, che posso viaggiare davvero, ogni volta che arrivo in qualche luogo ho sempre l’impressione non di vedere, ma di rivedere, come se lì ci fossi già stata, la mia mano nella sua, a farmi da guida e ad infondermi coraggio e là, dove il mondo è cambiato, sarò lieve nel raccontarglielo che i mutamenti hanno spesso preteso contributi di sangue, sfruttamento e dolore.
Non so quale sarà oggi ma mi meta.
Butterò in aria una monetina: di qua o di là, affidato alla sorte il mio cammino.
E’ già successo e ancora succederà.
Cibi cucinati per terra su carboni ardenti, carne di serpente che mi ha rovesciato lo stomaco, ma che non ho rifiutato perché tutto va sperimentato, notti in tende beduine sotto le stelle del deserto, giovani donne nude sol i polsi adorni di bracciali di piume, uomini d’affari in giacca e cravatta davanti ai palazzi di potere, il rumore convulso delle auto nella disperazione delle città e poi la vastità delle foreste a riposare il cuore dagli affanni, tracce d’animali selvatici su aspri terreni incolti a far da contrappunto a cagnolini infiocchettati nei salotti delle signore dell’alta società.
Volando su una mongolfiera ho assaporato il gusto del passato, camminando sul selciato di antichi paesi arroccati sui monti ho calpestato la storia, nel ventre di aerei grandi come palazzi ho immaginato il futuro.
Questo è il mio viaggiare di moderno Ulisse che non sa dove andare, ma va.
Strappare le radici per spingersi oltre è anche dolore e fatica, ma negarsi l’avventura è certamente assopimento e torpore.
Ho conosciuto lo spavento nella canoa rovesciata in un fiume canadese traboccante di acque tumultuose, ma anche la gioia nel limpido sorriso di una bambina che in un’isola del Pacifico ha intrecciato soltanto per me ghirlande di fiori.
Ho subito l’aggressione in una favela di Rio di tre balordi che volevano la mia macchina fotografica, ma anche goduto di conoscenze occasionali che sono diventate amicizie sincere.
Ho ascoltato il fragore di mari in tempesta, ma anche la tranquillità di tramonti accesi di luce nella pace lenta della sera.
Ritrovo ad ogni istante nella mente le parole dello scellerato eroe di Itaca, esempio di quell’ardore irrefrenabile che lo ha condotto “a divenir del mondo esperto e de li vizi umani e del valore”.
Di certo anche la mia nave sprofonderà, percossa dalla tempesta, come accadde per Ulisse, e verrà il tempo in cui dentro il mio sangue si spegnerà l’ardore, le gambe si faranno troppo deboli per affrontare nuove salite e le membra troppo fragili per sopportare i capricci del tempo in continuo mutamento, ma almeno mi resterà la certezza di aver cercato di conoscere, di capire, di aver tremato e sperato e , con tutte le inevitabili manchevolezze e tutti i limiti spesso invalicabili posti dalla natura umana, di aver tentato di vivere. E mio padre sarà con me.

3° classificato narrativa Carlo Testana con “Il nodo di un viaggio”

Partito! Finalmente!
Le porte del treno si sono chiuse e lentamente scorrono sul finestrino le colonne della pensilina della stazione.
Aumenta la velocità, si intrecciano i binari come le scie lasciate in cielo dagli aerei.
Mi siedo assaporando l’inizio del viaggio. Amo l’inizio di ogni viaggio.
Intanto un signore molto grasso e sudati si è incastrato nel corridoio con una signora col cappello.
La situazione è imbarazzante a dir poco. Venivano dalle parti opposte della carrozza. Passo io, passi tu, si sono arenati tra i sedili.
In attesa del capotreno chiamato a districare il groppo di carni e valigie, l’uomo panciuto dice di essere salito a Roma cercando di raggiungere Padova, possibilmente seduto.
Combinazione anche la signora col cappello è salita a Roma e sarebbe scesa anche lei a Padova.
“Certo Padova è bellissima, ma che dire di Venezia – attacca l’uomo – e poi Vicenza e Verona, magnifiche città, signora cara; qual delizioso cappellino l’avrà sicuramente comprato alla famosa cappelleria di Vicenza, vero?
“ Lei è un intenditore – risponde la signora, toccandosi lievemente il cappello con la mano sinistra essendo la destra impegnata a tenere un valigione rigonfio fino all’inverosimile, schiacciato dalla prominente anca sinistra del poderoso signore.
“E’ proprio un cappello vicentino, il mio preferito, lo porto con me in ogni viaggio. A Calcutta l’avrebbero comprato ad ogni costo. Un ricco indiano lo voleva per sua moglie, ma sono troppo affezionata per privarmene. Conosce Calcutta?
“Si, certo, – dice l’uomo- ci andai qualche anno fa e ne rimasi colpito. Ma che dire di Delhi? E Srinagar?, la città con canali su sui scivolano ferme le houseboats, laghi le cui acque scintillano anche di notte e verdi paesaggi mozzafiato verso la catena dei monti.
“L’Himalaya con le sue bianche cime da capogiro – sottolinea la signora col cappelli vicentino – una volta partecipai ad una spedizione sotto l’Everest;ci fermammo al primo campo base ad osservare le paresti di roccia e ghiaccio, scattammo foto respirando l’aria delle montagne. Dopo alcuni giorni indietro, niente di più: eravamo escursionisti, non alpinisti.
“E’ piacevole lo stesso, senza per forza doversi arrampicare fino alla cima, – commenta l’uomo grasso – si può andare passeggiando in molti posti bellissimi.
Io mi sporgo e ascolto con invidia e curiosità. Arriva il capotreno.
Prima chiede i rispettivi biglietti. A fatica i due, contorcendosi, riescono a mostrarli al controllo ma le manovre finiscono per complicare ulteriormente l’intreccio.
Il controllore si vanta di essere esperto di nodi, di averli appresi da suo nonno Alfonso, marinaio.
“Il fatto è – dice- che mio nonno era spesso in mare; quando tornava mi spiegava i nodi. Allorché imparai a farli lui partì, mi promise che un giorno mi avrebbe insegnato anche a scioglierli. Promesse da marinaio! Non lo fece mai perché si innamorò di una signorina in Brasile e così la mia competenza rimase a metà: so intrecciare diversi nodi, ma non riesco a scioglierli purtroppo.
“Ah! Il Brasile – dice l’uomo grasso – ci sono stato mille volte e vorrei tornarci per il piacere che mi concede quella terra piena di luci e colori straordinari.
“ Combinazione anch’io – è la signora che parla – amo il Brasile, lei ci è stato mai?
Ce l’ha con me che mi sono avvicinato per curiosare.
“ No, veramente – balbetto- non ho ancora avuto questo privilegio, ma se dite così ci andrò appena possibile, ve lo prometto. Adoro viaggiare!
“Lei che mestiere fa? – riprende la signora- di cosa di occupa?
“ Attualmente sto seguendo un corso per entrare in marina, però ancora non abbiamo studiato i nodi, mi spiace. Ma le prometto…
“Fermo lì! – dice l’uomo grasso- basta con le promesse, cerchiamo una soluzione.
“C’è su questo convoglio qualche esperto di sbrogliagrovigli? – urla il capotreno.
Si affaccia un tipetto magrolino e dice:
“ Io sono un esperto, ma sono un teorico, potrei spiegarvi di quali curve tridimensionali è fatto un nodo, la geometria di quelle curve, le funzioni matematiche, le tensioni che si generano, l’attrito e la risultante delle forze, ma questo potrà forse innalzare le vostre conoscenze personali nella materia senza tuttavia sciogliervi.
Serve quindi qualcuno che non sia un teorico come me, ma un pratico. Egli troverebbe sicuramente la soluzione. Purtroppo di gente non se ne vede tanta in giro.
“E se tornassimo indietro nel tempo? – dice la signora col cappello rivolta all’uomo grasso – ad un momento prima di incotrarci nel corridoio, un attimo prima della collisione. Chiudiamo gli occhi e cerchiamo di rifare a ritroso i movimenti e i passi che ci hanno portato qui. Ci guiderà il pensiero. Dobbiamo solo rimontare le immagini al contrario.
“Certo – dice il capotreno- capovolgete il verso e riavvolgete il nastro!
“ Ma come possono ricordare esattamente tutte le movenze, è impossibile! – dico-.
“Sforzateci, – incita il professore teorico- sollecitate la memoria, rifate tutto esattamente al contrario. Si mette a disegnare, almeno così sembra, con un dito nell’aria, una complicata formula di inversione dei frammenti spazio-temporali della mente umana.
Con gli occhi chiusi e con lenti movimenti i due annodati centimetro dopo centimetro, muovendosi in sincronia con molta cautela, tornano indietro sui loro passi. La concentrazione, si legge sui volti, è altissima. Come singoli fotogrammi che si susseguono rallentati e in sequenza inversa, dopo successivi scatti temporali e diversi fermo-immagine per riprendere fiato e riordinare i pensieri, meraviglia! I corpi si sciolgono. Poi, ormai istruiti dall’esperienza, evitando passi falsi, con una perfetta scelta dei tempi liberano il corridoio. La tensione cala, si annulla, torna quel silenzio tipico degli scompartimenti quando il treno procede ad andatura costante. Ognuno se ne va per i fatti suoi con un lieve cenno di saluto, il signore corpulento asciugandosi la fronte, la signora col cappelli soffiando su un ricciolo biondo cadutole sul viso.
Mi addormento sognando la signorina del Brasile. Adoro sognare mentre viaggio.
Adoro viaggiare mentre sogno.

1° classificato poesia Bruno Centomo con “Gli appunti del viaggio”

“[…] S’annuncia col profumo, come una cortigiana,
l’Isola Non-Trovata… Ma, se il pilota avanza,
rapida si dilegua come parvenza vana,
si tinge dall’azzurro color di lontananza…”
Guido Gozzano “La più bella”

Tanto mi bastò per dipingere un cammino
appena svolto, un brulichio di visi già consumato,
un apostrofo non messo tra le lacrime degli addii.
Ingombro di me, di passi dimessi, d’itinerari improvvisati,
incapperò dentro abiti usati che sanno di fatica altrui,
casse di chiodi che inchioderanno il tavolame d’una casa
dove abitare abusivamente fin tanto sarà giorno fatto.

E in pegno, per ogni dove si transita, si finge smarrire
un ricordo, una tristezza piccola, la chincaglieria rinvenuta
nel fondo dei calzoni rattoppati con i sussurri d’amore,
le preghiere che scandiscono la conta di chi non sta più con noi.
Senza ardire, senza singhiozzare, potrei così tenere in tasca
la poesia ultima, precisa per i profumi che trattiene,
bella per i fiori che vi si consumano, tenera per ogni sorriso
ricevuto, le parole supplicate, quelle donate.

2° classificato poesia Giorgio Baro con “Sguardi nomadi”

Sguardi nomadi, rattoppi di fantasia,
saremo pensieri persi d’acqua grigia
in un fluire melmoso sotto i ponti,
e sulle labbra a sera tremiti di febbre
per aver osato stare nudi sotto il sole;
avremo fragranze di pane tra le mani,
e il respiro soffocato del fumo della stufa
seduti in cucina l’alba di domenica.
Poseremo un bacio sottile tra i capelli
ai nostri figli, guizzanti come lucertole,
sbandati dalla scia di rotte celebri
nel delirio di trasparenti vanità,
e parleremo della loro giovinezza,
consolati da alibi e lacrime pudiche.
Sguardi nomadi, sempre per ultimi
sapremo le novità di oggi, succubi
di paure nelle luci basse dei portoni
dove ci spingerà la pioggia; lucidi,
nella follia di andare, di sfuggita
ci riconosceremo allo stesso incrocio,
ci saluteremo balbettando sillabe
di un buongiorno senza crederci.
Forse la proiezione di un’ombra
nera sull’asfalto ci farà sussultare,
forse ci farà stonare la musica rubata
alle finestre spalancate sull’estate,
anche noi mendicanti di una canzone.
Sguardi nomadi, stretti in un ghetto
di fantasie ci piegheremo a terra
per stendere la stuoia e riposare;
scenderemo a violare il giardino ovattato
soffermandoci a ogni tonfo di neve
dai rami dei pini sopra le aiuole.
Anche noi, stupore bambino, tenderemo
a un cielo di nidi sfollati, anche noi,
assopiti, nel coccolare speranze.

3° classificato poesia Diego Baldassarre con “Oscillazioni”

La molla del tempo ripiega sulla memoria
nel punto in cui pioveva d’estate

Lì dove il vuoto si raccorcia

Nel suono sordo di pensilina
viaggiatori stranieri con sguardi attenti:
sfumature di pensieri sul volto
prima del bacio flessuoso sul collo

Sognammo lo stesso viaggio abbracciati
al metallo elastico dell’esistenza

Gli occhi enormi della notte fissavano noi

Risultati di tutte le edizioni del concorso:
Concorso Nazionale Laghese di Narrativa e Poesia "Stagioni di versi e racconti: l'estate" XXVI Edizione
Concorso Nazionale Laghese di Narrativa e Poesia "Le piccole cose che ci fanno stare bene. Riconoscerle e raccontarle" XXV Edizione
Concorso Nazionale Laghese di Narrativa e Poesia "La Natura è madre. Parole e pensieri per l'ambiente" XXIV Edizione
Concorso Nazionale Laghese di Narrativa e Poesia "Sogni per il mio domani" XXIII Edizione
Concorso Laghese di Narrativa e Poesia "Vite in Viaggio. Riflessioni, racconti, versi sul personale senso del viaggiare" XXII Edizione
Concorso Laghese di Narrativa e Poesia "Il mio Paese. Ieri, oggi e domani" XXI Edizione
Concorso Laghese di Narrativa e Poesia "Racconti diVersi" XX Edizione
Concorso Laghese di Narrativa e Poesia "La Famiglia" XIX Edizione
Concorso Laghese di Narrativa e Poesia 2016 XVIII Edizione
Concorso Laghese di Narrativa e Poesia XVII Edizione
Concorso Laghese di Narrativa e Poesia  XVI Edizione
Concorso Laghese di Narrativa e Poesia 2013 XV Edizione. Tema del concorso: Nel mondo dei sentimenti: il Dono.
Concorso Laghese di Narrativa e Poesia "Nel mondo dei sentimenti: L'amore" XIV Edizione
Concorso Laghese di Narrativa e Poesia 2011 XIII Edizione
Concorso laghese di narrativa e poesia XI Edizione
 
 
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